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Tratto da Generazioni in movimentoProgetto e fotografie di Filippo Molinari. Testi e interviste di Laura Gambi.

Sono venuto in Italia a diciassette anni: avevo solo una cosa in testa, rispettare le regole, le leggi, le persone, la cultura. Mi hanno portato in una comunità che si chiama L’erba voglio, a S. Pancrazio, vicino a Russi. Io cercavo di capire come funziona qua. Studiavo  l’italiano, poi ho scelto di fare un corso da meccanico perché mi piaceva. Durante uno stage il padrone mi ha detto “Se vuoi venire, ti prendiamo volentieri a lavorare”.

Avevo una mentalità molto aperta, ho conosciuto tanta gente, ho anche iniziato a fare teatro, era un divertimento, tanto che lo farei sempre. Per aiutare i miei connazionali sono diventato traduttore.

Quando sono partito, mia mamma piangeva perché per lei io ero ancora piccolo. Uno dei miei fratelli è  morto in Iran. Mio babbo ha detto “Te, qualsiasi persona di qualsiasi razza, di qualunque etnia e religione, siano piccoli o grandi, uomini o donne, prova a dargli sempre più rispetto possibile. Inizia la tua vita, ti voglio tanto bene”. Anche adesso quando lo chiamo mi dice che mi vuole bene.

Era il nove agosto del duemila e sette, la data me la ricordo ancora, un giovedì pomeriggio, c’era un mio amico con me e siamo arrivati in Iran. Da lì abbiamo iniziato a spostarci come clandestini, un po’ a piedi, un po’ in camion. Le persone che ci guidavano ci hanno portati in Turchia, ci abbiamo messo quasi una settimana, faceva freddo, pioveva, due o tre ragazzi sono morti in montagna perché non riuscivano più a camminare, erano troppo stanchi. Li hanno abbandonati là. Poi abbiamo dovuto attraversare la Turchia, andavamo con un camion sulle montagne, era molto scivoloso, c’era sabbia e pioveva. Centocinquanta persone una sopra all’altra per dodici ore, ci davano solo un po’ di pane e yogurt. A un certo punto abbiamo visto un camion che era caduto giù dalla scarpata, quaranta, cinquanta irakeni erano morti. Sono arrivato a Istanbul e lì ho parlato con un altra persona. Abbiamo viaggiato sul confine tra Grecia, Turchia e Bulgaria per quattro giorni, poco da mangiare, di giorno faceva caldo e ci mettevamo nascosti a dormire, di notte c’erano le zanzare e noi camminavamo. C’erano delle donne e dei bambini piccoli, anche una nonna. Ci hanno visti i poliziotti, hanno cominciato a sparare. Sono arrivato a Patrasso e ho parlato con un ragazzo afgano che conoscevo. Tutti i giorni facevo una corsa per vedere se riuscivano a farmi salire di nascosto su un camion. Dopo una settimana mi sono messo sotto un camion cisterna, infilato sopra il cassetto delle chiavi. Sono rimasto lì dentro venti, ventidue ore. Il camion è entrato dentro la nave, la nave è arrivata in Italia, il camion è sceso e non si è fermato per quattro, cinque ore. Cercavo di chiamare il camionista, fischiavo. Cercavo di farmi vedere dalle macchine che passavano a fianco. Cercavo di cambiare posizione, e ho avuto la fortuna più grande della mia vita perché se mi scappava una mano o un piede io ero sotto il camion, morto. Vicino a Faenza il camion si è fermato e mi sono buttato giù. Avevo un po’ di soldi e avrei voluto andare in Norvegia o a Londra, come tanti afgani.

Le persone sulle macchine non mi capivano e io ho continuato a camminare. Non dormivo da tre notti e avevo fame. Due carabinieri mi hanno fermato e mi hanno portato all’ospedale perché hanno visto che non stavo bene. Poi mi hanno portato in caserma, mi hanno preso le impronte, mi hanno fatto le foto, e mi hanno detto “Hotel”.

La mattina dopo ho preso il biglietto dell’autobus e ho aspettato un’ora, due ore, facevo fatica a capire l’orario. Allora ho preso un taxi fino a Ravenna, in questura. Ho telefonato a mio babbo che mi ha detto di restare, anche se io non sapevo nulla dell’Italia.

Il razzismo nel mio paese è peggiore che qua, perché lì ci sono diverse etnie e gruppi religiosi. Noi siamo islamici, ma sciiti.

Da noi ci sono i pashtun, i tagik, gli hazara. Abbiamo avuto una guerra civile che è durata quasi trecento anni, poi sono arrivati i russi, dopo sono usciti Al Qaida e i talebani che non esistevano prima. Per guidare un gruppo così grande e così organizzato ci vuole una testa più grande. Sono scappato perché lì siamo sempre stati colpiti dai talebani, molti dei quali sono pashtun. Noi hazara siamo un  po’ in tutto il mondo, tanti sono scappati. La nostra religione non ci tiene molto stretti e la nostra razza ha una mentalità aperta, cerchiamo di andare sempre avanti, di studiare, di mandare le bambine a scuola.

La mia mentalità non è cambiata. Solo che lì è un po’ diverso rispetto alle ragazze, alle discoteche, al bere alcol. Mio babbo mi ha detto “L’Italia non può cambiare per te, ma tu puoi cambiare per l’Italia”. Mio babbo e mia mamma sono persone molto pulite nel cuore, cercano sempre di aiutare gli altri. Noi abbiamo aiutato molte persone quando potevamo. Mio babbo mi ha insegnato a non sentirmi mai superiore agli altri per quello che ho, per esempio per i soldi. Perché la nostra responsabilità più grande è quella di essere degli umani tra gli umani.