Nell’attesa di Fiorenza Menni al Cisim il 24 gennaio, pubblichiamo una sua breve e illuminante nota apparsa su Passione e ideologia. Il teatro (è) politico, a cura di Stefano Casi e Elena Di Gioia, Bologna, Teatri di Vita, 2012.

 

Sarajevo, 1996

 

Sono contraria a immaginare la singola voce come un assoluto. L’assoluto è il composto delle voci, ma all’infinito. Impasto che prevede incessante movimento. Trasformazione continua. È in questo stesso modo che penso e costruisco opere teatrali: tenendo conto che la singola voce è parte di un discorso largo la cui prerogativa è trasformarsi. Mi muovo tra il godimento cosciente dell’incessante proporsi delle cose del mondo e la pratica dell’abbandono, senza accelerare dei tempi per farne un discorso. L’angolazione si genera per ebrezza cognitiva, il punto di vista permette di giungere a un proprio condensato di senso da condurre fino al limite oltre il quale perde gli agganci con il reale. Ed è lì che mi fermo. Poi l’azione, come prodotto, per allontanarmi dall’indicibile fino ad esigere la proposizione di un’architettura da condividere attraverso un’accesa questione con la bellezza.