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Virgilia D’Andrea (Sulmona, 11 febbraio 1888 – New York, 12 maggio 1933) è stata un’anarchica italiana.

Rimasta orfana della madre, dopo qualche anno il padre – che si era risposato – viene ucciso dal rivale in amore, insieme con i suoi due bambini e sotto gli occhi della figlia. A sei anni Virgilia viene rinchiusa in un collegio di suore. Qui trascorre un’infanzia solitaria, all’insegna di una rigida educazione cattolica che tuttavia non riesce a condizionare la sua formazione e le sue scelte future. In tale ambiente Virgilia si appassiona alla lettura di alcuni autori italiani che successivamente la influenzeranno in vario modo sia dal punto di vista sia letterario che etico, fra cui Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci e Ada Negri.
Il primo incontro con la parola “anarchico” è del 1900, quando Umberto I muore per mano dell’anarchico Gaetano Bresci e le suore obbligano le ragazzine che ospita il convento a pregare per il re appena defunto. Virgilia dimostra invece curiosità e simpatia verso il giovane vendicatore dell’eccidio perpetrato da Bava Beccaris.

Un giorno mi capitarono fra le mani i volumi di Ada Negri… E quando mi cadde sotto lo sguardo la lirica: Il regicida, quando lessi l’altra scritta dopo la strage di Milano, e quel… “qualcuno nell’ombra maledisse” allora compresi perchè Bresci aveva ucciso. Aveva ucciso nel nome di coloro che non hanno casa, che non hanno pane, che non hanno affetti. Si era levato, gigante luminoso, sopra un popolo di morti per vendicare chi era stato mitragliato sulle strade d’Italia. Aveva colpito in nome dei diseredati, dei calpestati. Aveva voluto scuotere e rovesciare la base falsa ed ingiusta su cui si inalza la vita. (da Torce nella Notte)

Conseguito il diploma di maestra, Virgilia abbandona il convento (1909), e, dopo aver superato gli esami per idoneità all’insegnamento, inizia il suo iter di docente nei paesini attorno a Sulmona. Tale esperienza la mette in contatto con un’umanità povera, emarginata, ma dotata di una propria singolare dignità e sarà fondamentale per la sua futura scelta politica.
L’esperienza del disastroso terremoto di Avezzano del gennaio 1915 la segna moltissimo. Di quei morti, per lo più poveri contadini analfabeti, la patria non si preoccupa minimamente, ma – come denunzierà la stessa D’Andrea – non li avrebbe dimenticati se fosse stato necessario chiamarli in combattimento per la guerra, fatta passare per una cruenta difesa della patria in pericolo.
Nel 1917, alla guida delle donne socialiste abruzzesi, firma un appello per chiedere l’immediata cessazione della guerra e la proclamazione della pace. Nella cittadina abruzzese c’è un attivo circolo socialista fondato dai ferrovieri socialisti fin dal 1897.
La D’Andrea fa parte del gruppo socialista che collabora con l’avvocato Mario Trozzi ed è proprio grazie a Trozzi che, a Firenze, conosce l’anarchico Armando Borghi, segretario dell’Unione Sindacale Italiana, che è stato internato a L’Impruneta per la sua opposizione alla guerra. Questo incontro è fondamentale nella vita di Virginia e di Armando in quanto i due a breve diverranno inseparabili compagni di vita e di fede politica. Di lei Armando Borghi dirà:

“Aveva le mie stesse opinioni [..] Ci intendemmo, e presto fummo marito e moglie. Amore «libero», dicono taluni, come se potesse esistere l’amore «schiavo». Restammo uniti quindici anni,  di lavoro, di lotte, di ansie, ostracismo, persecuzioni, carcerazioni, esili, immutati e legati sempre l’uno all’altra dall’affetto e dalla stima.”

Dopo aver conosciuto Borghi milita nel movimento anarchico, collabora a «Guerra di classe», l’organo dell’Unione Sindacale Italiana, fondato nel 1915 da Borghi a Bologna, dove la D’Andrea viene arrestata nel luglio del 1919.
Nel marzo 1920 si trasferisce a Milano, città nella quale dal 26 febbraio esce – diretto da Errico Malatesta – il quotidiano anarchico «Umanità Nova», al quale la maestra abruzzese collabora, e con Malatesta tiene anche numerosi comizi e conferenze nelle officine e nelle piazze di Milano e d’ogni parte d’Italia. Ricorderà Borghi:

“Essa per mesi e mesi è passata in Italia da una tribuna ad un’altra; da uno sciopero a un altro, in scorribande che andavano da Milano a Firenze, Ancona, Bari. Si badi: quando – lo ripeto – il comizio non era la tranquilla conferenza nella sala di oggi; ma era la manifestazione di piazza, con folla a migliaia e coll’eccidio all’ordine del giorno.”

Quando il fascismo divenne una forza aggressiva, con funzione specifica di domare i rossi, il pericolo andò sempre aumentando, per coloro che battevano la piazza come propagandisti, e Virgilia D’Andrea non ebbe un momento di sosta. Fino all’estate del 1922, vale a dire pochi mesi prima della marcia su Roma, «Umanità Nova» parlava dei giri di conferenze di Virgilia D’Andrea nelle Marche e in Romagna.

Il 27 ottobre 1920 viene arrestata con l’accusa di cospirazione contro i poteri dello Stato, incitamento all’insurrezione, istigazione a delinquere, apologia di reato, associazione e complicità morale in atti terroristici commessi da terzi con esplosioni di bombe, ma il 30 novembre ottiene la libertà provvisoria ed è scarcerata. Porta avanti, quasi da sola e con pochi mezzi, la redazione di «Umanità Nova».

Nel 1922 le violenze fasciste rendono difficile la permanenza a Milano: la D’Andrea e Borghi non vengono accettati neanche negli alberghi, i cui gestori li pregano di andarsene perché la polizia non può “garantire”. Virgilia ottiene il passaporto per la Germania e il 22 dicembre 1922 parte per Berlino, per partecipare al Congresso operaio sindacale internazionale. Sarà un viaggio senza ritorno: raminga per il mondo, tra ristrettezze economiche e persecuzioni, la coppia affida le proprie cose ad un paio di bauli, a loro volta affidati alla custodia del tipografo Zerboni, lo stesso che aveva stampato il libro di poesie della D’Andrea. Il tipografo verrà arrestato e i bauli sequestrati. Poco dopo, il successivo mandato di cattura spiccato dalla questura di Milano contro Borghi e la D’Andrea, li spinge a rimanere a Berlino.

Il 27 febbraio 1923 Virgilia viene denunciata come autrice della raccolta di poesie Tormento; il rapporto di polizia offre una dettagliata e interessante descrizione della copertina:
“Il libro ha la prammatica copertina rossa. In alto, in nero, la figura d’una donna alata, con disperata espressione di invocare dall’alto, verso cui vola, la liberazione dalle catene, cui è legata nei polsi, e che sono trattenute in una seconda vignetta, in fondo alla pagina, da mani artigliose di evidente marca borghese, e nell’intermezzo è semplicemente stampato Virgilia D’Andrea, Tormento. Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito.”

tormento

Nella prefazione di Tormento Errico Malatesta scrive:ù

“Ella si serve della letteratura come d’un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico o ad una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che dalla prigione lo sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta.”

Tormento contiene anche una poesia dedicata a Karl Liebknecht (uno dei fondatori della Lega di Spartaco, tra i protagonisti della” Sollevazione Spartachista” di Berlino del gennaio 1919 insieme a Rosa Luxemburg).

SPARTACUS

                                      Carlo Liebknecht
 
Amate, disse, quest’amor profondo
Che mi disseta e si disserra al sole…
S’agita e pensa e si rinnova il mondo,
Pulsano ai venti magiche parole.
E passa e avvince la ribelle fiamma
Arco di volo e fulgido pensiero,
Avanti, avanti… arride l’orifiamma,
Risplende, in alto, di bellezza fiero.
E i caldi cuori pugnalati e franti
Alle porte del sogno, un dì saranno
Ali azzurrate, che ai ribelli canti,
In folgori e tempeste sorgeranno.
…E mentre nella mischia agonizzava
Gli arrise attorno un’alba di splendore…
L’essere grande alfin si tramutava
In sole, in luce, in palpito d’amore.
O sole, o luce, o scintillante aurora,
Impeto ardito di possente frana,
Al puro raggio l’anima s’indora
E  sarà vita di grandezza umana.
Bologna, 1 Maggio 1919

A Berlino, Virgilia sta male, anche a causa della miseria e della denutrizione, che le provocano svenimenti. Con Borghi, abbandonano la capitale tedesca e si stabiliscono ad Amsterdam, dove tengono comizi contro il fascismo italiano. Alla fine del 1924 si trasferiscono al Quartiere Latino di Parigi, città nella quale sono confluiti molti oppositori del regime fascista.
Nel 1925 Virgilia si iscrive all’Università La Sorbona e pubblica L’ora di Maramaldo, che è un’aspra critica a Benito Mussolini, paragonato a un novello Maramaldo, l’uccisore di Francesco Ferrucci (il termine Maramaldo indica una persona vile e prepotente, che infierisce su chi non può difendersi).

Nel maggio del 1926, a Parigi, fonda la rivista «Veglia», della quale, fino a dicembre del 1927, usciranno otto interessanti  numeri. La rivista coinvolge numerosi artisti, spesso anarchici, e fonde nuovi linguaggi artistici con spinte politiche libertarie. La «Veglia» sarà punto di riferimento anche delle discussioni per le iniziative in favore dei anarchici italiani Sacco e Vanzetti e delle proteste relative al loro assassinio legalizzato.

veglia

Il 19 novembre 1928, ottenuto dal Console americano a Parigi un permesso di visitatrice temporanea, raggiunge New York, dove da clandestino l’ha preceduta Borghi. In quell’occasione le autorità fasciste italiane comunicano alle autorità americane che la D’Andrea è una pericolosa propagandista sovversiva.
Negli Stati Uniti d’America la «fragile maestrina» – come dirà di se stessa – tiene centinaia di conferenze caratterizzate da un lirismo appassionato e coinvolgente, nelle quali riesce a coniugare il passato con il presente, rievocando il pensiero e l’azione di Socrate, di Spartaco, di Giordano Bruno, di Carlo Pisacane, fino agli atti individuali di Gaetano Bresci e di Michele Schirru, che aveva conosciuto.

Il suo stato di salute contuna a detoriorarsi a causa dell’intensa attività a cui Virgilia si sottopone quotidianamente, ma l’anarchica non si scoraggia ed inizia assieme a Borghi un giro di congressi e conferenze di studio e di propaganda, cosa non nuova per la coppia durante le loro peregrinazioni. Continua inoltre a scrivere in italiano per L’Adunata dei Refrattari, sull’edizione statunitense. Le denunce rese pubbliche durante comizi e conferenze sono nette ed inequivocabili e sono rivolte contro la religione ed il concetto di patria intesi come sottofondo nascosto per perpetrare il dominio di classe e per giustificare il Fascismo.
Nel 1932 deve sottoporsi ad un intervento chirurgico per un tumore all’intestino, ma il suo stato di salute non migliora. Pur se debilitata, Virgilia continua tuttavia a lavorare su Torce nella notte (che contiene sedici scritti nei quali l’autrice parla, oltre che della sua  vita, di Gaetano Bresci, Pietro Gori, Nicola Sacco, Bartolomeo Vanzetti, Sante Pollastro, Sergio Modugno, Ottorino Manni, Gino Lucetti, Anteo Zamboni e Michele Schirru).
L’intervento chirurgico non è risolutore ed il 1º maggio 1933 deve nuovamente farsi ricoverare presso un ospedale di New York, dove una decina di giorni più tardi muore.
I funerali si svolgono il 15 maggio; la commemora Osvaldo Maraviglia e Nino Crivello legge una poesia. Dopo che la bara “calò nella fossa fu ricoperta dai fiori rossi della fede”. È sepolta nel cimitero di Astoria a New York.
Diffusasi la notizia della sua morte alla redazione del settimanale anarchico L’Adunata dei Refrattari giungono centinaia di lettere di cordoglio e il suo ultimo libro viene recensito da quasi tutta la stampa anarchica in esilio.

Max Sartin, su L’Adunata dei Refrattari del 13 maggio 1933, pubblica un articolo:
Come già nell’ Ora di Maramaldo, la compagna d’Andrea raccoglie in questo suo secondo volume di prosa, Torce nella notte, scritti pubblicati sui giornali e periodici di parte nostra. I compagni li avranno letti in tutto o in parte, ma a rileggerli hanno tutto da guadagnare e ciò non soltanto per la bella forma che riveste le idee, i sentimenti e le ansie di un apostolato aspramente combattuto, ma anche perché in essi rivivono le fasi più tragiche della lotta sanguinosa a cui tutti abbiamo dedicato la nostra fede ed a cui abbiamo tutti affidate le nostre più tenaci speranze.

La notte è il tempo fosco di medioevali risurrezioni in cui viviamo, che sembra essere stato destinato, dall’ignavia degli uni e dalla barbarie degli altri, all’estinzione completa di quelle fiamme di libertà e di giustizia che brillarono in ogni periodo della storia sulle fronti più pure del genere umano, ed accesero, un giorno non lontano, nel cuore di tutti gli oppressi la speranza dell’ultima redenzione.

Le torce sono i roghi solitari dei martiri nostri che sulla via del progresso avvolta nelle tenebre, levarono le pietre miliari incandescenti del loro sacrificio: Ernesto Bonomini, Gino Lucetti, Anteo Zamboni, Sacco e Vanzetti, Di Giovanni e Scarfo, Sante Pollastro, Michele Schirru… tutti quanti negli anni più tristi della sconfitta, animati dalla volontà e dal coraggio di tenere alta la bandiera dell’ideale, lottarono eroicamente, caddero e morirono, senza cedere all’avversità del destino, all’insidia e alla ferocia del nemico, un palmo solo del loro terreno, un fremito solo della loro temerità.

Nella notte che si fa sempre più densa di tenebre, sempre più cupa di minacce, queste torce umane risplendono di luce perenne ad indicare alle moltitudini sperdute la via della luce e della redenzione. E su questa via che, ottenebrata e ignava, l’umanità sembra avere smarrita, l’autrice, dal corpo esile macerato dal male, dallo spirito vibrante di fede, procede gettando con mano sicura il seme dell’idea non come un imparaticcio, ma come una creazione personale del suo spirito che muta in canti, ora esultanti ora angosciati, le formule aride del pensiero o le aspre  vicende della lotta, e conta le tappe del suo cammino attraverso i ricordi lontani dei precursori e degli apostoli non dimenticati: di Bresci, del martirio immeritato di Ottorino Manni, delle maliose promesse di Pietro Gori.

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