Il Verbo degli Uccelli

di Tahar Lamri

Chiesi:

«In breve, da quale paese questi nobili ci hanno onorato di una visita?».

L’anziano che si teneva sul margine della schiera mi rispose:

«Noi siamo una gerarchia incorporea di solitari. Veniamo dalla Città del Non-Dove».

(Shihab al-din Yahya Suhravardi)i

Il Verbo degli Uccelli (Mantiq at-Tayr), masnavi (masnavi in lingua araba significa “rima baciata di profondo significato spirituale”) simbolico e mistico di 4458 versi (nell’originale in persiano), è senza dubbio la più bella e la più poetica delle opere gnostiche di Farid al-Din Abu Hamid Muhammad ibn Ibrahim Attar Nishapuri, conosciuto come Attar, poeta mistico iraniano del xii secolo. Intitolato anche Maghamat-e Toyour (I ranghi degli uccelli), in riferimento alla sua dimensione pedagogica dell’insegnamento delle fasi e dei ranghi del viaggio sufi, raffigura gli uccelli, simbolo dell’uomo, che vanno alla ricerca del loro Re, il mitico Simorgh.

Il titolo Mantiq at-Tayr fu scelto da Attar in riferimento al versetto coranico 16 della sura 27 An-Naml (Le formiche):

Salomone succedette a Davide e disse: «O uomini, ci è stato insegnato il linguaggio degli uccelli (منطق الطير mantiq at-tayr) e ci è stata data abbondanza di ogni cosa: invero questa è grazia evidente!»

Attar usa l’espressione “Mantiq at-Tayr” in senso coranico ma anche nel senso di una parola gnostica da decodificare. Sembra aver scelto di intitolare così la sua collezione a scopo didattico, cioè per mostrare che il viaggio di ogni uccello-pellegrino, l’unico animale che può volare via e allontanarsi dalla terra per i cieli, dipende dal suo rango mistico e dalla sua volontà e capacità di voler raggiungere la meta. Lo dice esplicitamente alla fine del libro, quando solleva il velo sul mistero del Simorgh.

Si tratta di un racconto cornice, che narra l’epopea mistica, iniziata e sostenuta dall’amore, di un gruppo di uccelli guidato dall’upupa un uccellino delle dimensioni di un merlo che si trova in Europa, Africa e Asia ed è caratterizzato da una cresta di piume rosse con punte nere – per trovare il loro re, il Simorgh. In tutta l’opera poetica troviamo evidenti riferimenti coranici ma, scegliendo questo uccellino diffuso nei tre continenti, Attar si inserisce anche nella tradizione universale, sia ebraica antica che coranica, dove esso ha fama di essere magico e messaggero divino.

Gli uccelli sono le rappresentazioni allegoriche delle anime che, per trovare il loro re sul mitico Monte Qaf, dovranno attraversare, oltre al deserto, le sette valli che permetteranno il distacco del sé e la fusione nell’Uno, l’Essere supremo e invisibile. La storia è impreziosita da una letteratura di saggezza sotto forma di racconti, ma il viaggio iniziatico degli uccelli ha un carattere che prende in prestito sia la filosofia orientale che quella occidentale.

Il sufismo è largamente ispirato dalla filosofia neoplatonica e dai suoi commenti alle opere di Platone e soprattutto di Aristotele. Ma sistematizzandosi su un modello greco, il sufismo orientale si riappropria anche di un modello mutuato dall’Oriente dallo stesso Plotino. La storia della porosità dei sistemi filosofici greco, persiano e poi arabo deve tener conto anche del fatto che, cacciati da Giustiniano nel 533, gli ultimi platonici dell’Accademia, Damascio e compagni, si rifugiarono presso la corte del re persiano Cosroe i Anoshakrawān.

Prima di iniziare il viaggio verso le sette valli – il simbolismo dell’eptade è importante –, bisogna attraversare il deserto della fame e della sete materiale. Una volta compiuto questo passo, il ritorno è impossibile perché il risveglio della coscienza e dell’anima alla possibilità di ritrovare il proprio oggetto di amore assoluto è irreversibile.

Le sette valli sono piene di pericoli ma soprattutto di insegnamenti. Gli uccelli attraversano successivamente le valli della Ricerca (طلب Talab), dell’Amore (عشق Ishq), della Conoscenza (معرفة Ma’arefat), del Distacco (استغناء Istighna), dell’Unificazione (توحيد Tawhid), dello Stupore (حيرة Hayrat) e dell’Annientamento (فناء Fana) per raggiungere il trono reale di Simorgh, simile a quello di Salomone. A ogni valle perdono compagni, sopra ogni montagna alcuni si arrendono. Tuttavia, a forza di tenacia, umiltà, pazienza e rinuncia alle illusioni dell’ego, gli uccelli arrivano finalmente al termine della loro ricerca e del loro viaggio spirituale. Esausti ma pervasi del nuovo significato che hanno trovato nella loro esistenza e nel loro posto nell’universo, gli uccelli con il cuore che batte aspettano di incontrare colui per il quale hanno compiuto il viaggio. È allora che, entrando nella sala del trono, i Trenta uccelli, (sī morgh in persiano significa 30 uccelli) vedono, invece del loro legittimo sovrano, il proprio riflesso.

L’uccello che ritorna sulla terra è il simbolo della triade Qaf-Tuba-Simorg. Qaf è la montagna, dotata della capacità di reagire al deterioramento degli uomini; Tuba è la nicchia ecologica dell’essere umano, un necessario ritorno verso la consapevolezza del proprio ambiente; Simorg è l’uccello reale attraverso il quale la vita continua sulla Terra, simbolo di esseri aerei alati.

L’uccello simboleggia l’uomo, imperfetto, capace di elevarsi spiritualmente ma che deve ritornare alle cose materiali.

Il Simorg nidifica in cima a Tuba o Albero della Conoscenza, il quale, portando i semi di tutte le piante esistenti, si trova nel cuore della montagna di Qâf, essendo esso stesso in cima a Malakut, mondo immaginario, destino dell’anima. Lo shock provocato dal volo del Simorgh fa cadere dall’albero Tuba tutti i semi di tutte le piante del mondo. Semi che poi attecchiscono e si sviluppano sulla terra, fornendo agli uomini i rimedi contro le malattie. Se il Simorgh è quindi considerato simbolo di fertilità, rimane soprattutto un mediatore tra cielo e terra. C’è da notare che la città santa del Senegal Touba prende il nome dall’Albero della Conoscenza dove nidifica il Simorgh.

Ci dice lo storico e teologo del ix secolo, Abu Gafar Mohammed Tabari:

Per raggiungere il monte Qaf, dobbiamo camminare per quattro mesi nella tenebra; e infine, quando le nostre forze sono spossate e nessuna speranza di salvezza ci consola, incontriamo la montagna di Qaf. Essa circonda tutta la terra, come un anello circonda il dito di una mano femminile: è la madre e la radice e il fondamento di tutte le montagne.

Su Qaf non c’è sole né luna né stelle – perché sole, luna e stelle appartengono a una creazione meno pura. Ma non c’è nemmeno tenebra: lo smeraldo e il blu di cui la montagna è composta emanano una luce azzurro-smeraldina così intensa da illuminare tutte le pietre, le gole e gli abissi; e da rendere splendido perfino il nostro cielo.

Ai piedi della montagna di Qaf, si estendono due immense città di smeraldo, Jabalqa e Jabarsa: un quadrato di dodicimila parasanghe di lato – segno della totalità e della perfezione. La popolazione è incalcolabile. Qui Allah ha progettato una storia diversa da quella umana: perché gli abitanti di Jabalqa e di Jabarsa non discendono da Adamo, e non hanno mai sentito parlare di lui e di Satana. Non sappiamo quando e come sia avvenuta questa creazione. Sappiamo soltanto che a differenza della nostra, la razza di Jabalqa e di Jabarsa vive in una condizione edenica. Il loro nutrimento si compone esclusivamente di vegetali; non hanno bisogno di vestirsi, poiché, senza che essi siano degli Angeli, la loro fedeltà a Dio li rende simili agli Angeli. Poiché non vi è tra loro differenza di sesso, non desiderano posterità.ii

Ed Henri Corbin, in Corpo spirituale eTerra celeste, ci spiega:

La montagna di Qâf segna dunque il limite tra due mondi, il visibile e l’invisibile ai sensi. Per penetrare nelle città che si celano nel suo aldilà, il pellegrino mistico deve aver superato le evidenze fisiche e le norme comuni, deve aver affrontato le prove simboleggiate dalla lunga marcia nelle Tenebre attraverso le distanze che lo separano dalla Terra delle città di smeraldo.

È questo Mondo di Mezzo, mundus imaginalis, mondo della Imaginatiovera, che non bisogna assolutamente confondere con ciò che in Occidente si chiama correntemente l’immaginario, la fantasia, l’irreale, “fantasia” di cui già Paracelso diceva giustamente che è un gioco del pensiero, senza fondamento nella natura, insomma “la pietra angolare dei folli”.

Questo mondo immaginale non ha dunque niente di irreale, di “fantomatico”. Ha però una realtà sui generis di pieno diritto, ed è senza dubbio ciò che noi abbiamo completamente dimenticato in Occidente, da quando fu perduto il “combattimento per l’Anima del mondo”.

Perduta tale battaglia, l’Immagine è abbandonata a tutte le degradazioni, a tutte le licenze di una Immaginazione che ha perduto il suo asse d’orientamento, e con questo la sua funzione cognitiva. Non si conoscono più che le Immagini derivate dal sensibile o percepibili attraverso i sensi (la civiltà cosiddetta dell’immagine, lo schermo del cinema). Quindi non più Immagini metafisiche, né metafisica dell’Immagine e dell’Immaginazione, poiché il principio di questa è che attraverso l’organo dell’anima, attraverso la sua funzione immaginante, è l’universo stesso dell’Essere che si rivela nelle Forme immaginali del mundus imaginalis, che rivelano eo ipso all’anima la sua propria Immagine, il suo Alter Ego nel mondo del Malakut.iii

Sebbene Attar sia il primo autore che sia riuscito a fare di questa storia di uccelli un modello di ambientazione poetico-mistica, non è il primo ad averla immaginata. Il Simorgh è presente negli scritti di grandi mistici e filosofi, in particolare nella Resalatat-Tayr(Epistola degli uccelli) di Avicenna (980-1037), e nell’omonima epistola di Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111). Nel racconto di Avicenna, l’uccello simboleggia l’anima che preesiste al corpo e si trova imprigionata nella gabbia del corpo materiale. Dimenticando gradualmente il suo stato libero originario, la sua ricerca consisterà nel ricordare la sua prima natura per liberarsi dalle catene del corpo e volare via verso il mondo spirituale. L’immagine dell’anima-uccello, prigioniera e ignara della sua vera natura, è ripresa anche da Shihab al-din Yahya Sohravardi (1155-1191), per il quale il consumo del Simorgh nelle fiamme significa la morte del sé inferiore e la nascita della Conoscenza spirituale. In un altro trattato di Sohrawardi, intitolato L’incantesimo di Simorgh, quest’ultimo appare sotto forma di un’upupa che simboleggia l’anima di ogni pellegrino e invita l’io terrestre a prendere il volo per tornare alla montagna di Qaf: insistendo sul fatto che ogni cammino iniziatico richiede l’abbandono del piumaggio (cioè l’obbligo di spogliarsi delle vesti dell’io), viene ascoltato solo da un ristretto numero di chiamati.

Come altre storie orientali, Il Verbo degli Uccelli è intervallato da racconti, aneddoti, parole di santi e pazzi che l’upupa dispensa agli altri uccelli, sui quali vale la pena soffermarsi brevemente. Racconto chiave dell’intera opera e vera parabola delle difficoltà e dei pericoli sulla via dell’iniziazione, è la storia di cheikh Sana’an che narra le vicende del grande maestro mistico Sana’an e del suo amore, non ricambiato, per una cristiana per la quale perde la fede e finisce guardiano di porci prima di ritrovare la via dell’ascesi. L’altra storia importante del libro è quella del mistico Hallaj, crocifisso dalla corte abbaside di Baghdad nel 955 per aver testimoniato l’amore di reciprocità tra Dio e l’uomo.

Attar mostra con quale appassionata veemenza questo audace amante “giocò con la testa” per conquistare il gioiello della divina Bellezza attraverso una feroce lotta; questo eroico combattente che Dio finisce per uccidere in singolar tenzone, nella guerra santa, si imbratta il volto con il sangue che sgorga dalle sue membra mutilate per non sembrare impallidito. E il grido supremo «Io sono la verità» che ha pronunciato, si diffonde da lui con il suo sangue che scorre. Scorre sul mondo dove tutti gli elementi liberati si scatenano ed entrano in tumulto, squarcia il velo delle idee, resuscita i morti e “incornicia l’universo” (L.Massignon, Parole donnée).iv

L’ordine sufi dei Qalandar, che promuoveva l’azione negativa e la ricerca del biasimo come via all’ascesi, è ricordato nel racconto Unarabo fraiQalandar. L’arabo in questione viene derubato e picchiato dai qalandar e di questa brutta avventura ricorda soltanto la parola “Entra!”. Questo ordine sufi è totalmente scomparso, ma ne rimangono tracce nei canti qawwali, come nella canzone Must Qalandar di Nusrat Fateh Alì Khan (L’ubriaco Qalandar / è in stato d’ebrezza). Queste e altre storie impreziosiscono il racconto, alcune comiche come la passione di cheikh Khirqani per le melanzane o l’amore folle di un nobile per un giovane birraio o, ancora, quella dello stolto annegato a causa della propria barba. E Attar conclude così il libro:

O Attar, a ogni respiro tu donasti al mondo un canestro di segreti […] Ora hai tratto il sospiro dell’Amore universale, ora hai intonato il canto degli amanti nell’alcova. La tua poesia fu linfa per gli infiammati dalla verità, e per gli innamorati fu il perpetuo ornamento.

Immagini
Habiballah Savaji, illustrazione manoscritto Mantiq at-Tayr, circa 1600.
Metropolitan Museum of Art.

Note

iShihab al-din Yahya Suhravardi (1155–1191), Risāle-yi avāz-i par-i Ǧabraʾı̄l (Il fruscio delle ali di Gabriele)

iiAbu Gafar Mohammed Tabari (839-923), Tarikh arrusul wal muluk (Storia dei profeti e dei re), Dar Al-Maarif, Il Cairo, 1960

iiiHenri Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, 1986, Adelphi.

ivLouis Massignon, Parole donnée, Ed. Julliard, 1962