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L’oggetto di cui cui parlerò è questo manufatto peruviano. Un piccola terracotta dipinta. La sua forma è tondeggiante, alla Botero, ma un Botero povero per poveri, un Botero che si accontenta di riconoscersi in una linea dominata da tutta una categoria di artigiani, che, sotto il profilo delle opere prodotte, non si distinguono gli uni dagli altri, ma, penso, non sono per questo meno contenti della loro maestria piccola. Vediamo un camion tondeggiante, ben nutrito, trasporta ceste di frutta e verdura colorate con scrupolo. Vediamo il faccino tondo del conduttore e, di fianco a lui, un altro viaggiatore. Sopra il tetto della cabina, una famiglia di campesinos con gli abiti tradizionali. Padre e madre accovacciati vicino al piccolino in fasce. Si distinguono nei visetti carnosi i tratti somatici dei nativi. Il padre, però, cosa insolita in Perù, ha la barba. Dietro il bimbo, al centro del gruppo, un campesinos in piedi suona un tipico flauto di Pan a canne allineate e di diversa lunghezza. Ha due ali, gonfie, diresti pettorute, orgogliose, dipinte con cura. È un angelo e questa è la Santa Famiglia. Si tratta di un presepe con le ruote. Forse vanno in Egitto. Forse salteranno su una mina. Forse verranno bloccati alla frontiera. Forse non si fermeranno mai. Sono Giuseppe, Maria e Gesù bambino.
Questo oggetto mi è molto caro. L’ho acquistato a Bologna, alla fiera missionaria che ogni Natale si tiene presso la chiesa di San Francesco. Ma, per me, è un ricordo del Perù. Un’immagine che mi riporta a giorni importanti della mia vita. A Lima, infatti, abbiamo adottato nostra figlia, Maria Milagros. È stata una gestazione lunga e imprevedibile. Appena arrivati ci hanno affidato la bambina. Poi, tante cose, la burocrazia, gli attentati (eravamo alloggiati in un condominio adiacente al consolato americano), i terremoti, il colera, la paura che i sintomi d’una semplice influenza fossero quelli dell’epidemia allora in corso. Abbiamo cambiato casa tre volte. Anche noi siamo stati una famiglia in movimento. Però, non siamo tornati assieme. Dopo tre mesi, essendo finito il mio periodo di permesso, sono tornato per ripredere il lavoro e dar fiato alle finanze familiari. D’altra parte, tutta sembrava ormai concluso, non restava che un timbro, sicché Anna, mia moglie, era ben convinta che lei e Maria avrebbero preso l’areo la settimana successiva la mia partenza.
Un inciso. Solo adesso, dopo 24 anni, noto che i nomi Anna/Maria hanno precise rispondenze evangeliche. Potere dei Trebbi.
Invece, la settimana dopo il mio rientro è iniziato lo sciopero dei fiscales (i procuratori). Il primo nella storia della Repubblica Peruviana. Il timbro non è stato applicato. E quando gli addetti a tale bisogna sono tornati al lavoro (dopo due combattutissimi mesi), ci si è accorti che lo spazio per l’applicazione non era stato lasciato. Il foglio era troppo fittamente scritto. Così, bisognava ricominciare tutto da capo. Anna che, nel frattempo aveva appreso il castigliano e conosciuto diverse persone della società limegna, si è fatta allora ricevere dal procuratore generale, e il procuratore ha concesso il permesso di aggiungere al foglio una strinscia di carta bianca su cui applicare il timbro.
Mio padre ed io le abbiamo accolte all’areoporto di Bologna, che era ancora piccolissimo. Pochi voli, pochi gate, pareti bianche. Qui, seguendo le indicazioni del mio presepe in viaggio vorrei parlare soprattutto di spostamenti. All’areoporto, mio padre (che, certo, sarebbe venuto ugualmente), non era solo una presenza affettiva. La sua necessità era dovuta al bisogno, al desiderio, di trattenere all’interno della famiglia quel momento così delicato. Infatti, io non ho la patente e, di norma, mi sposto su mezzi pubblici, che però in quel frangente, mi sembrava opportuno evitare.
A Lima, la sera, e anche il giorno, per la verità, non prendavamo gli autobus. Guardandoli, si capiva benissimo perchè, dovendo affrontare un lungo percorso, la Santa Famiglia fossa salita sul tetto. Ci spostavano in taxi. I taxi limegni sono un mondo strano. Al limite, sai dove vai ma non dove entri. Una sera, per vedere nel loro teatro uno spettacolo degli Yuyachkani (che avevo conosciuto all’ISTA di Volterra), intrapresi, solo (Anna doveva restare con Maria), uno spostamento notturno. Fermai un taxi, aprii lo sportello e, giusto il tempo di notare gli strani cenni del conduttore, precipitai nel vuoto. C’era solo un sedile, quello al fianco del conducente.
Lo spettacolo valeva assolutamente la pena. Le reazioni del pubblico sono un viaggio nel cuore d’una società. Ad un certo punto, l’attore, sbendandosi, diceva, ben chiaro, in spagnolo: “Francisco Pizarro, il crudele fondatore di Lima”. Ci deve essere stato un movimento o anche solo un energico irrigidimento alle mie spalle, perché avvertii il bisogno di guardare. Un fila di persone abbastanza in là negli anni si era come impietrita. Molto più eloquente d’una protesta o d’una plateale uscita da teatro, quell’impietrirsi urlava il disagio per l’offesa al fondatore. Nonostante il pubblico fosse al buio, nel mio ricordo quegli anziani si stagliano in piena luce. Uno in particolare, coi corti capelli bianchissimi, il viso ovale, gli occhiali dalla montatura leggera e la bocca serrata, mi appare tanto vivido che se ne vedessi l’immagine la riconoscerei.
A Bologna, vado a teatro in autobus. Il 19 mi porta all’ITC di San Lazzaro. Il 13 ai Teatri di Vita. Alla Soffitta vado a piedi. Il 36 mi avvicinerebbe all’Arena del Sole e alle Moline, ma considerati i tempi morti e la brevità del tragitto coperto, anche lì vado a piedi. Il 58 mi porta vicino al Testoni di Casalecchio.
Gli autobus sono una condizione essenziale della mia vita di spettatore. Spesso, soprattutto al ritorno, sono l’unico comunitario fra i passeggeri. Nordafricani. Filippini. Asiatici. Centroafricani. Peruviani dal profilo inca. Se non ci fossero sarei solo e il comune potrebbe tagliare le corse dopo le 22. Il teatro non basta a motivare la viabilità notturna. Tutti i destini si intrecciano e, quando non si mordono a vicenda, fanno massa, si rafforzano. Il mio tornare del teatro, il loro muoversi in una città diventata forse familiare s’inquadrano in traiettorie che coprono la terra. La vera globalizzazione è quella degli umili cittadini del mondo, che seduti nei vagoni illuminati (spazio ce n’é) gettano luci nella notte per il semplice fatto di difendere il mandato a esistere.
Per questo ho portato ai trebbi questo oggetto di creta dalle linee tondeggianti che riguarda l’esistere di tante e tante vite.