E’ da un po’ di tempo che non vi scrivevo. A dire il vero anche questa volta non scrivo direttamente a voi della redazione della CISIM REVIEW. Mi affido a voi perché questa è l’unica possibilità che mi rimane di mettermi in contatto con Tahar Lamri. E’ dal 25 ottobre che vorrei recapitargli questa lettera. Sono giorni, mesi, che lo cerco, ma non c’è nulla da fare, ogni mio tentativo fallisce. Non risponde al telefono e nemmeno alle mail. Le righe che vi affido, non so quanto utili alla vostra comunità di lettori, rimandano a un questione che io e il mio quasi gemello Tahar portiamo avanti da molti decenni.
Riflettere sulle nostre vicende individuali, sui nostri ricordi, e nello stesso tempo sugli avvenimenti del mondo, può essere un metodo utile alla comprensione? In realtà non ho risposta a questa domanda. Perdonatemi se vi coinvolgo in questa piccola riflessione e confronto con Tahar. Ah, e poi, rischiavo di dimenticare, ho saputo dell’arrivo di un giovane Vicario Parrocchiale a Lido Adriano, ecco, se non è pretendere troppo, ho l’ardire di chiedervi se siete in grado di far pervenire anche a lui la nostra corrispondenza,. Per ora ho terminato. Vi ringrazio e a risentirci a presto.

Qui di seguito la lettera per Tahar.

IMG_1019

25 ottobre 2016

Caro Tahar,

ti scrivo da casa mia a Ravenna. In realtà vorrei scriverti da Mosul, che si trova sulla sponda orientale del Tigri. Così gli Arabi musulmani ribattezzarono l’antica Ninive, la capitale assira citata anche nella Bibbia.

Ecco, più si avanza negli anni e più ci si abitua alla morte. Ci si abitua anche all’idea delle guerre.
Eppure sono costretto a pensare alla morte, perché invecchiare vuole anche dire che si comincia a prendere sul serio la possibilità, lontanissima, che anche noi, prima o poi, si giunga al termine della nostra permanenza su questo pianeta.
Della morte si può fare esperienza in tanti modi, io ho cominciato a toccarla quando i miei nonni m’hanno salutato. Ma la guerra è altro. E’ molto diversa.
Per fortuna ho visto la guerra solo sui giornali, in televisione, in rete.
E’ stato dai racconti dei genitori e dei vicini di casa che per la prima volta ho sentito parlare della guerra. Le sere nel prato davanti a casa, dopo che s’era consumata la cena, ognuno portava la propria sedia o sgabello. C’erano anche degli sdrai, le sere d’estate, dicevo.
I grandi allora si trovavano a fare due chiacchiere e a fumare e a raccontare nel prato davanti a casa. Ecco in quelle sere parlavano di parenti morti per una bomba, di tedeschi, di polacchi, di americani neri arrivati dal cielo con il paracadute, di un cugino sfigurato da una mina.
Le donne, le mogli degli operai, e anche qualche uomo – prima d’andare o dopo essere tornato dal bar – ecco, loro, i grandi, quando facevano trebbo nelle sere d’estate, tante volte raccontavano della guerra. Tra loro c’era chi veniva dalle colline delle Marche, chi dalla bassa ferrarese, chi dalle valli di Volano, chi da Imola, altri dalle colline forlivesi, ognuno portava un ricordo.
Ecco, io la guerra l’ho conosciuta così.
C’era un episodio che mi aveva colpito di quelle battaglie, l’avevo visto in televisione, era la ripresa degli americani che scappavano in elicottero dal Vietnam. Quella volta m’era piaciuto guardarla la guerra, i potenti scappavano, i poveri vincevano, almeno così m’appariva. Che io ci sono cresciuto con la guerra del Vietnam. Il telegiornale ogni giorno ci diceva quel che accadeva in quel posto lontano.
Poi è successo che ho visto la morte, ma non era quella naturale, come quella di un vecchio il più delle volte, ma anche di giovane, che muore per una malattia. No, non ho visto quella morte lì. Ho visto un’altra morte, che non è neanche quella tremenda di chi muore in un incidente. Ho visto un signore che s’era suicidato.
Che è quasi peggio che vedere un signore morto per mano di un’altro. Quasi. Mi viene da pensare che omicidi e suicidi stiano dentro la categoria della guerra.
E’ vero che non sono fatti collettivi come nelle guerre, ma appartengono alla stessa categoria, quella delle morti volute dagli uomini. E qui non disquisiamo sul giusto e l’ingiusto.
Era una sera di primavera. No, forse una sera d’autunno o di fine estate. Non era freddo, questo è certo. L’aria era tersa, nel buio i lampioni del mio villaggio illuminavano con precisione e nettezza i confini tra una cosa e l’altra.
Il condominio lungo un centinaio di metri, i tre piani in altezza, i quattro portoni per accedere alle scale, i sei appartamenti per ogni scala, i quattro citofoni, gli alberi ancora piccoli, le auto parcheggiate nel piazzale, la panchina di pietra bianca, la brezza leggerissima della notte.
So che a un certo punto mi sono alzato e ho chiesto: “Cosa è successo?”, mi hanno detto: “Stai buono, torna a letto, una tragedia”. Ho chiesto ancora, e allora ho sentito che tutto il mio condominio, gemello di quello che ci stava di fronte, era mosso da un fremito.
Eravamo tutti, grandi e piccoli, eravamo tutti alle finestre, nei balconi, quasi fossimo a teatro, tutti guardavamo il corpo appeso al pino, accanto alla panchina di pietra bianca e sentivamo i singhiozzi, le grida trattenute, dei famigliari dell’uomo, poi l’arrivo della polizia, poi l’autoambulanza, poi il brusio come alla fine di una tragedia, il pubblico che s’allontana. Che torna alle sue case, ognuno alla propria.
Un ultimo commento raccolto: “Quando succedono queste cose ci rendiamo conto delle sciocchezze e delle stupidate che ci tengono impegnati tutti i santi, a dire il vero i non troppo santi, giorni della nostra vita”.
Questo è l’ultimo commento di cui ho memoria dopo che per quasi due ore, assieme agli altri duecento occhi del mio condominio avevamo fissato il condomino gemello di fronte a noi, lontano centocinquanta metri, e cento nasi avevano annusato l’aria frizzante di una notte diversa dalle altre. Molto diversa.
Come guardare in fondo a un burrone.
Guardando il gemello di fronte.
L’ultima tapparella s’abbassa.
Buio.

Il cimitero degli Indiani è un cimitero di guerra nella città di Forlì che ospita le spoglie dei soldati indiani morti a Forlì e nel forlivese durante la Seconda guerra mondiale. Il cimitero sorge in Via Ravegnana proprio di fronte al cimitero monumentale. Il cimitero venne avviato nel dicembre 1944 e ospita le tombe di 496 caduti (15 ancora ignoti), di cui 493 soldati dell'esercito indiano della IV, VIII e X Indian Division e 3 dell'esercito britannico. All'interno del cimitero di guerra indiano si trova il monumento commemorativo della cremazione degli ufficiali indù e sikh e dei soldati dell'esercito indiano che persero la vita tra il 16 aprile e l'ottobre 1944, nel corso degli attacchi lungo la linea gotica, fino allo sfondamento definitivo avvenuto tra l'agosto 1944 e l'aprile 1945. In totale il monumento onora la memoria di 769 caduti. Il 13 agosto 2011, all'entrata del cimitero è stato scoperto un gruppo bronzeo, opera dell'artista di origine bulgara Stephan Popdimitrov, dedicato ai soldati sikh caduti in guerra.

Il cimitero degli Indiani è un cimitero di guerra nella città di Forlì che ospita le spoglie dei soldati indiani morti a Forlì e nel forlivese durante la Seconda guerra mondiale.
Il cimitero sorge in Via Ravegnana proprio di fronte al cimitero monumentale. Il cimitero venne avviato nel dicembre 1944 e ospita le tombe di 496 caduti (15 ancora ignoti), di cui 493 soldati dell’esercito indiano della IV, VIII e X Indian Division e 3 dell’esercito britannico.
All’interno del cimitero di guerra indiano si trova il monumento commemorativo della cremazione degli ufficiali indù e sikh e dei soldati dell’esercito indiano che persero la vita tra il 16 aprile e l’ottobre 1944, nel corso degli attacchi lungo la linea gotica, fino allo sfondamento definitivo avvenuto tra l’agosto 1944 e l’aprile 1945. In totale il monumento onora la memoria di 769 caduti. Il 13 agosto 2011, all’entrata del cimitero è stato scoperto un gruppo bronzeo, opera dell’artista di origine bulgara Stephan Popdimitrov, dedicato ai soldati sikh caduti in guerra.